Di Redazione – Avv. Francesco Catania Geopolitica
Uno psichiatra britannico ha recentemente pubblicato una lunga riflessione video sul comportamento dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump, ipotizzando che alla base della sua condotta pubblica e politica vi sia un tratto psicologico ricorrente: un radicato, costante e onnipresente senso di vittimismo.
Questa condizione, sostiene lo psichiatra, affonda le sue radici nell’infanzia. Donald Trump avrebbe vissuto un’infanzia segnata da una figura paterna autoritaria e svalutante, che lo ridicolizzava anziché incoraggiarlo, instillando in lui un sentimento di disvalore. Questo schema relazionale si sarebbe rafforzato nel contesto della competizione sociale: il giovane Trump, imprenditore del Queens, sarebbe stato guardato con sufficienza dagli immobiliaristi di Manhattan. Anche dopo aver avuto successo in quel mondo, non avrebbe mai ricevuto piena legittimazione.
Nasce così la narrativa interiore di Trump come vittima del sistema, sentimento che secondo l’autore del video lo avrebbe accompagnato per tutta la vita, fino a fondersi con l’identità nazionale. In altre parole, Trump non si considera solo vittima personale, ma vede anche l’America come vittima del resto del mondo: la NATO che “approfitta” degli Stati Uniti, la Cina che “ruba” i posti di lavoro, la Germania che “non paga” per la difesa comune. Questa narrativa ha plasmato politiche commerciali aggressive, relazioni diplomatiche tese e un nazionalismo economico profondamente reattivo.
Le vere vittime? Una minaccia alla narrativa
Il nodo centrale dell’analisi è però un altro: la vera empatia sarebbe per Trump impossibile, perché la presenza di una vittima reale minaccerebbe il suo senso artificiale di vittimismo.
In questa chiave interpretativa, Trump sarebbe infastidito – persino rabbioso – davanti alla sofferenza autentica. Quando il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in un incontro alla Casa Bianca, gli mostrò immagini di soldati feriti e civili traumatizzati, Trump reagì con fastidio. La sofferenza altrui lo mette in crisi: ridimensiona il suo stesso racconto esistenziale.
Allo stesso modo, durante i grandi incendi in California, mostrò un’indifferenza quasi ostentata. E, come noto, definì i militari americani caduti “suckers” e “losers” (sfigati e perdenti), secondo fonti riportate da The Atlantic nel 2020 .
Non stupisce, allora, l’ostilità verso John McCain – veterano della guerra in Vietnam, catturato e torturato – da lui definito un “perdente” perché era stato fatto prigioniero . Un vero eroe di guerra, con una vera esperienza di dolore, è insopportabile per chi vive in un universo psichico dominato da una vittimizzazione autoindotta.
Il virus del vittimismo e il potere geopolitico
La riflessione si spinge oltre, individuando un paradosso inquietante: Trump non solo si sente vittima, ma diffonde questo sentimento come un virus tra i suoi collaboratori e sostenitori. Li porta a condividere una percezione del mondo come ostile, ostacolante, carico di minacce, sviluppando un atteggiamento da “assedio permanente”.
Anche figure politiche a lui vicine finiscono, secondo l’autore, per entrare in questa spirale: aumentano i compiti, le responsabilità, ma si sentono sempre più isolati. È la “sindrome del bunker”, tipica di chi si percepisce sempre sotto attacco.
Questa psicologia, per quanto frutto di un’analisi speculativa, ha effetti tangibili sulla geopolitica: dalle guerre commerciali all’approccio verso la NATO, fino alla negazione dei diritti umani in contesti come la Palestina, la logica binaria tra vittima e carnefice condiziona scelte strategiche globali.
Un precedente storico? Nixon. Ma con un abisso di differenza
Il parallelo più vicino, secondo lo psichiatra, è Richard Nixon. Anche Nixon parlava del proprio vittimismo, si considerava maltrattato dalla stampa. Ma il confronto finisce qui. Nixon non ha mai mostrato il grado di ostilità sistematica verso le vittime reali che caratterizza Trump.
Il caso più emblematico, raccontato nel video, è quello del fratello maggiore di Trump, Fred Trump Jr., disprezzato dal padre per aver scelto la carriera da pilota. Il padre lo definiva un “autista glorificato”, lo umiliava sistematicamente, fino a spingerlo all’alcolismo e alla morte. Trump, invece di difenderlo, si sarebbe alleato con il padre, interiorizzando la lezione più crudele: chi mostra debolezza va schiacciato.
Conclusioni: un’ipotesi inquietante
Questa analisi, pur non rappresentando una diagnosi clinica in senso stretto — e pur dovendo essere letta nel rispetto della cosiddetta “Goldwater Rule” (la norma etica che impedisce agli psichiatri di diagnosticare personaggi pubblici senza averli esaminati) — offre una chiave di lettura potente:
la personalità di un leader può plasmare la politica internazionale ben oltre gli interessi oggettivi di uno Stato.
Trump, nel suo narcisismo vittimista, diventa un attore geopolitico fuori schema. Un bulldozer privo di empatia, ostile verso la fragilità, allergico al dolore degli altri.
E allora, la domanda che resta è:
può un uomo che odia le vittime guidare un mondo pieno di vittime?
Fonti di riferimento e approfondimenti
- The Atlantic, “Trump: Americans Who Died in War Are ‘Losers’ and ‘Suckers’”, Jeffrey Goldberg, 2020.
- BBC News, “Trump says John McCain is ‘not a war hero’”, 2015.
- Mary L. Trump, Too Much and Never Enough: How My Family Created the World’s Most Dangerous Man, Simon & Schuster, 2020.
- American Psychiatric Association, Principles of Medical Ethics with Annotations Especially Applicable to Psychiatry, sezione 7 (Goldwater Rule).
- Video completo: “A Psychiatrist Explains Why Trump Lacks Empathy & Often Becomes Hostile In The Face Of Suffering”, [YouTube], autore non identificato nella trascrizione